Mansioni – Demansionamento:
L’art. 2103 c.c. stabilisce che il lavoratore debba essere addetto alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
In buona sostanza, il lavoratore non deve essere adibito a mansioni inferiori; in caso contrario, il comportamento del datore di lavoro può essere impugnato avanti il Giudice del Lavoro, al fine di ottenere l’accertamento dell’intervenuta dequalificazione (demansionamento) e la conseguente riassegnazione a mansioni equivalenti, ovvero adeguate e corrispondenti alla professionalità acquisita.
E’ anche possibile che il lavoratore venga adibito a mansioni normalmente svolte da un collega con qualifica superiore; in questo caso egli ha diritto ad un trattamento corrispondente all’attività svolta (adeguamento della retribuzione).
E’ ormai consolidato in giurisprudenza che un demansionamento può avere delle conseguenze molto pesanti sull’immagine professionale del lavoratore demansionato (o addirittura marginalizzato) e quindi sul suo “valore professionale” sul mercato del lavoro, cagionando un danno di tipo professionale.
A titolo esemplificativo, la giurisprudenza ha più volte risarcito il danno alla professionalità riconoscendo, in via equitativa, un risarcimento pari a una somma corrispondente a circa la metà delle retribuzioni percepite dal lavoratore nel corso del periodo di demansionamento.
Se il demansionamento si è tradotto in una sofferenza fisico-psichica, può anche essere all’origine di gravi danni alla salute del dipendente (fino a configurarsi come mobbing) e/o dare diritto al risarcimento del danno biologico, liquidato sempre in via equitativa.
Si rammenta che per qualsiasi danno, è fondamentale provare il demansionamento, il danno patito nonché il nesso di causalità tra il comportamento illegittimo della società e il danno.